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San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia; sii tu nostro sostegno contro la perfidia e le insidie del diavolo; che Dio eserciti il suo dominio su di lui, te ne preghiamo supplichevoli; e tu, o Principe della milizia celeste, con la potenza divina, ricaccia nell'inferno satana e gli altri spiriti maligni i quali errano nel mondo per perdere le anime. AMEN. Clicca su S.Michele A .>>> e vai alla Cappella virtuale Reginamundi.info

lunedì 23 febbraio 2015

Satana dà per avere. Il suo non è un dono gratuito, né disinteressato

sources: ÀNCORA EDITRICE

La tentazione nel deserto:

 essere come dèi


Satana dà per avere. Il suo non è un dono gratuito, né disinteressato
Last Days in the Desert - © Gilles Bruno Mingasso - IMD


















© Gilles Bruno Mingasso - IMD

Se la cenere purifica… quanto più il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte (Eb 9,13-14). 
 Prima di presentarsi in pubblico per parlare ed agire, Gesù è sottoposto ad una prova o tentazione. Nel deserto egli ripete l’esperienza che fu già del suo popolo. I quaranta giorni di permanenza sono un chiaro richiamo al tempo dell’Esodo, allorché il popolo peregrinò per quarant’anni nel deserto, sottoposto a continue prove. Il numero quaranta è una cifra tonda che ritorna più volte nella Scrittura (diluvio, Mosè, Elia, Giona). Al di là del suo valore aritmetico, esso designa un periodo che è altresì un’opportunità. Nella sottile precisione della lingua greca, questo tempo, più che un kronos (successione di attimi tutti uguali), è un kairos (occasione preziosa, tempo di rivelazione e di grazia). Gesù anche in questo si allinea al suo popolo, ripetendo l’esperienza del deserto. Accanto all’analogia, c’è da registrare la sostanziale differenza tra le due esperienze, tragicamente negativa quella del popolo, trionfalmente positiva quella di Gesù. La parola tentazione evoca in noi l’immagine di fragilità, fallimento, cedimento, perché tale è, in tanti casi, la nostra esperienza. Davanti ad una sollecitazione negativa, la volontà non sempre reagisce secondo la luce dell’intelligenza e il dettato della coscienza. Così la tentazione diventa sinonimo di pigrizia mentale e di povertà interiore. Ognuno di noi ricorda anche casi in cui abbiamo reagito positivamente, incanalando istinti e passioni nell’alveo della ragionevolezza e del lecito. La tentazione è diventata un test positivo che ha favorito uno scatto di maturità e ci ha fatto salire un gradino sulla scala della crescita. Non è quindi del tutto vero che tentazione e fallimento si richiamino automaticamente. Vogliamo sostenere il valore positivo della tentazione, anzi, la necessità che sia presente nella nostra vita, perché può aiutarci a diventare sempre più uomini, sempre più cristiani. Ci fa da guida e da Maestro il Signore Gesù. Attraverso un racconto che può venire solo da Gesù (non diamo credito agli autori che parlano di «drammatizzazione» a opera dell’evangelista), possediamo un prezioso documento che rivela l’identità del Protagonista.
Mauro Orsatti, Solo l’amore basta, pp. 11 e 15. * * *
Non metterai alla prova il Signore Dio tuo… A lui solo renderai culto (cf Mt 4,1-11). Le prove o tentazioni sono tre. Non è qui il caso di invocare il principio latino Omne trinum est perfectum (Tutto ciò che è trino è perfetto), quanto piuttosto di notare che sono toccati tre grandi ambiti nei quali l’uomo è sollecitato a sganciarsi da Dio e a costruire in proprio la sua esistenza. Nella sostanza la tentazione è unica: cercare se stessi e il proprio tornaconto indipendentemente da Dio o, peggio ancora, utilizzandolo in modo strumentale, come sarà nel caso delle citazioni bibliche di Satana. È la fotocopia della proto-tentazione, la madre di tutte le tentazioni, quella che abbaglia la prima coppia nel giardino di Eden con la lusinga: «Sarete come dèi» (Gn 3,5). È l’uomo che pensa di gareggiare con Dio e di sostituirsi a lui, vedendolo un rivale anziché un Padre buono. Gesù è sollecitato a percorrere l’itinerario di ogni uomo. La tentazione parte sempre dal positivo, ammantata di bene, sciorinando un luccichio invitante che la rende carica di fascino. Il tentatore dice quello che solo per soprannaturale conoscenza può sapere e che non appare all’esterno. 15 Lo dice in modo provocatorio e sottilmente dubitativo: «Fai vedere che sei veramente il Figlio di Dio compiendo un miracolo». La risposta giunge prontamente, adducendo la Parola divina. Il passo citato da Gesù, tratto da Dt 8,3, mostra che l’attenzione primaria deve essere riservata a Dio, a quello che lui dice e a quello che lui vuole. L’uomo non deve agire per semplice istintività o solo per rispondere a bisogni primari, come quello della fame. L’uomo vive sempre all’ombra di Dio, anche quando svolge azioni puramente naturali. Il richiamo di Gesù trova applicazione in tante persone che vivono sempre alla presenza di Dio, qualunque cosa facciano e dovunque si trovino. Con la seconda tentazione cambia lo scenario. All’aridità del deserto subentra lo splendore della città santa. A Gesù è richiesta nuovamente una documentazione della sua vera identità. Il tentatore, considerato che Gesù aveva risposto con una citazione biblica, fa uso pure lui di tale Parola, e rammenta un passo del Salmo 90 in cui Dio promette assistenza ai suoi eletti, inviando loro degli angeli in caso di bisogno. La risposta non si fa attendere. Sempre sulla linea delle citazioni bibliche, Gesù ricorda il testo di Dt 6,16 in cui si chiede di non mettere alla prova Dio. Il rapporto con lui si fonda sull’amore, sul sincero affidamento alla sua bontà, e non su prove che, se forse tranquillizzano l’intelligenza, sicuramente destabilizzano il rapporto. Nella terza tentazione il testo parla di «un monte altissimo» senza precisazioni geografiche. L’individuazione risponde al bisogno di concretezza, ma non 16 coglie il cuore del messaggio e rimane, tutto sommato, abbastanza superflua. Nell’ultimo tentativo, satana rivela tutto il suo antagonismo con Dio, di cui si proclama il rivale. Ora è gettata la maschera ed è chiaro che la sua richiesta mira a possedere il cuore dell’uomo. Satana dà per avere. Il suo non è un dono gratuito, né disinteressato; egli intende far da padrone nella vita delle persone. L’abnormità della richiesta è sottolineata dalla risposta di Gesù, con un imperioso: «Vattene, satana!». È ancora la parola di Dio, «A lui solo renderai culto» (Dt 6,13), ad essere citata, richiamando la professione di fede del pio ebreo che ha Dio come unico e incontrastato Signore. Gesù ribadisce non solo il primato di Dio, ma anche la sua unicità. Il versetto conclusivo celebra il trionfo di Gesù, l’allontanamento di satana e la presenza degli angeli; il loro servizio è un segno di riconoscimento della divinità di Gesù. Egli ha dimostrato di essere effettivamente il Figlio di Dio non con i segni portentosi che avrebbero colpito l’immaginazione e suscitato uno stupore momentaneo, ma con la totale obbedienza al Padre, dichiarandolo l’unica ragione della sua vita e il punto incondizionato di riferimento.
Mauro Orsatti, Solo l’amore basta, pp. 16 ss.17 4
 * * *
Il nostro progresso si compie attraverso la tentazione (sant’Agostino).All’interno del mondo creato, solo l’uomo può essere tentato. Possiamo quindi dire che la tentazione gli va riconosciuta come privilegio: un privilegio ben poco invidiabile, se la tentazione porta ad un’opposizione a Dio, ad una costruzione in proprio dell’esistenza. Tale, purtroppo, è spesso la nostra esperienza umana, cosicché finiamo facilmente per sovrapporre tentazione e tradimento, tentazione e peccato. Il brano evangelico delle tentazioni di Gesù ha mostrato la faccia positiva della tentazione, quella che offre l’opportunità di dichiarare e manifestare il proprio amore, quella che diventa un atto di coraggio, di fiera proclamazione della scelta unica e incondizionata per Dio. La tentazione ha rivelato l’identità di Gesù, mostrandolo come l’Uomo Nuovo che inverte la tendenza della prima coppia, come l’Ebreo che inaugura il nuovo popolo di Dio, quello dei vittoriosi. Grazie a Gesù, il deserto torna ad essere il luogo dell’intimità tra Dio e il suo popolo, espressione di un amore incandescente, come suggerito dal profeta Osea: «La 18 attirerò a me [è la donna, “sedotta”, personificazione del popolo], la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). La tentazione è utile, anzi, necessaria. Essa è parte di quella lotta che l’uomo ingaggia ogni giorno con se stesso e con il mondo che lo circonda. Lo ricorda la Sapienza antica: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della seduzione» (Sir 2,1-2). Adamo non ha superato la prova. Il popolo di Dio, nel deserto, non ha fatto meglio. Con Gesù, il popolo, tutta l’umanità, ritorna sotto la signoria della parola di Dio. Non possiamo illuderci di sottrarci alla prova, ma dobbiamo sperare di riuscire vincitori. Lo saremo sicuramente se uniti con Cristo, come afferma sant’Agostino: «La nostra vita in questo pellegrinaggio non può essere esente da prove e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere… Cristo ci ha trasfigurati in sé, quando volle essere tentato da satana… Se siamo tentati in Cristo, sarà proprio in Cristo che vinceremo».Mauro Orsatti, Solo l’amore basta, pp. 19 ss.[Tratto da "40 passi verso la Pasqua", Editrice Ancora]

FONTE :  www.aleteia.org/it

Il fuoco dell'Inferno è freddo?

Come interpretare il fuoco come simbolo divino?



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Jeff Giles 
“L'Inferno” è ormai una parola un po' desueta, anche nel linguaggio religioso: abbiamo pensato di soffiar via la cenere che si era depositata su questo argomento incandescente (l'immagine del fuoco, come vedremo, è capitale) e di riproporne qualche aspetto.
L'inferno è stato un po' ostracizzato per ragioni diverse. C'è chi lo considera il reperto di un paleolitico spirituale ormai ammuffito e, al massimo, col filosofo francese Jean-Paul Sartre (1905-1980), proclama che “l'inferno sono gli altri”, ossia il prossimo crudele o noioso. C'è invece chi afferma in modo perentorio, citando il poema edito postumo (1886) La fine di Satana di Victor Hugo (1802-1885), che “l'inferno sta tutto intero in questa parola: solitudine”, la quale è il campo da gioco di Satana. C'è pure la ben fondata convinzione del filosofo ottocentesco americano William James (1842-1910), secondo il quale “l'inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che noi creiamo a noi stessi in questo mondo”. Ed effettivamente, come con la grazia divina accolta e vissuta in noi già si sperimenta il paradiso della salvezza, così chi pecca e odia già è insediato in uno di quei gironi simbolici che mirabilmente Dante ha tratteggiato e popolato nei canti del suo Inferno. Dopo tutto, già san Giovanni metteva in bocca a Gesù queste parole: “Chi non crede è già stato condannato” (Gv 3,18). Che l'inferno, poi, sia vuoto lo si è ripetuto sbrigativamente sulla base di una riflessione ben più ponderata e articolata del famoso teologo Hans Urs von Balthasar (1905-1988): si dev'essere invece consapevoli che, se è vero che immensa è la misericordia di Dio, superiore non solo al nostro peccato, ma alla stessa sua giustizia – come già insegnava anche l'Antico Testamento (cf Es 20,5-9; 34,6-7) -, è altrettanto vero che esiste la libertà umana, presa sul serio da Dio che la rispetta fino alle sue estreme consegenze, anche quella del rifiuto radicale e totale del bene e dell'amore. Scriveva giustamente la romanziera tedesca Luise Rinser (1911-2002): “Ecco la mia idea precisa dell'inferno: uno se ne sta lì seduto, completamente abbandonato da Dio, e sente che ormai non può più amare, mai più, e che mai più incontrerà un uomo per tutta l'eternità”.
Ebbene, se stiamo alla Bibbia, sappiamo che è centrale un simbolo per rappresentare l'inferno: il fuoco. Anche l'immagine spaziale della Geenna, che in ebraico significava “valle dei figli di Hinnon”, attirava con sé l'idea di un incendio, perché era il luogo ove avveniva la combustione dei rifiuti di Gerusalemme e ove si consumavano culti pagani proibiti, nei quali si bruciavano persino figli, immolandoli per placare la divinità (sono le “alture di Tofet” a cui fa cenno Ger 7,30-33). La trasformazione della Geenna e del fuoco in un simbolo infernale è, però, un risultato tipicamente cristiano, legato alle parole di Gesù (il profeta Gioele, al massimo, ricorre a un luogo vicino alla Geenna, la valle di Giosafat, per collocarvi la sede del giudizio divino finale sulla storia: cf Gl 4,2.12-14).
Ecco solo un paio di esempi. “Se la tua mano [poi: il piede e l'occhio,ndr] ti è di scandalo, tagliala! E' meglio per te entrare monco nella vita che andare con tutte e due le mani nella Geenna, nel fuoco inestinguibile” (Mc 9,43-48). Nel giudizio finale agli empi è riservata questa minaccia di Cristo: “Andate via da me, o maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi seguaci” (Mt 25,41). L'immagine passerà anche in san Paolo, che destina a “essere bruciata” l'opera malvagia dell'apostolo, perché “la svelerà quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco saggerà quale sia l'opera di ciascuno” (1Cor 3,13-15). San Giacomo, nella sua lettera intravede nel peccato di lingua il bagliore delle fiamme infernali: “Anche la lingua è un fuoco! […] essa brucia la ruota della nostra vita ed è poi bruciata essa stessa nell'inferno” (Gc3,5-6). L'Apocalisse allargherà l'immagine trasformando gli inferi in uno “stagno di fuoco e zolfo”, ove sono relegati la Bestia satanica, i falsi profeti, la morte, gli inferi, i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali, i fattucchieri, gli idolatri e tutti i menzogneri (cf Ap 20,10.14; 21,8).
Ora il fuoco di per sé è nella Bibbia un simbolo divino, come la stessa scenografia delle teofanie attesta (si pensi al roveto ardente del Sinai). Cristo dichiara: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso!” (Lc 12,49). In un detto suggestivo di Gesù conservato nei vangeli apocrifi, ma con buona attendibilità di autenticità storica (è quello che tecnicamente gli studiosi definiscono un ágraphon, ossia un “detto non scritto” nei vangeli canonici). Gesù proclama: “Chi è vicino a me è vicino al fuoco”. Il fuoco è, inoltre, il simbolo dello Spirito Santo, come si ha nella scena ben nota della Pentecoste. Ora, è proprio il fuoco divino a rivestire anche un'altra funzione, rivelando un diverso volto di Dio che è, sì, il Salvatore, ma è al tempo stesso il Giudice, non indifferente alle esigenze della morale. Il fuoco è quindi l'amore di Dio, ma è altresì la sua giustizia.
E' ciò che già appariva al Sinai, ove Mosè, di fronte al peccato di Israele, affermava: “Il Signore tuo Dio è un fuoco divoratore” (Dt 4,24; 9,3). Ecco, allora, il vero significato del fuoco dell'inferno: è un modo espressivo e incisivo per mettere in scena il giudizio divino sul male. Il Signore non è il “buon Dio” di una certa morale accomodante; egli è il fuoco e, perciò, non può essere manipolato come a noi più piace, non è riconducibile alle nostre manovre e ai nostri diversivi. Egli è, certo, fuoco di amore e di passione profonda, egli riscalda i cuori e scioglie il gelo delle anime infelici. Ma è anche il fuoco che scotta chi tenta di afferrarlo o spegnerlo.
La Geenna con il suo ardente focolare è, quindi, il simbolo dell'agire giusto di un Dio libero e ben deciso a ingaggiare con il male la sua lotta vittoriosa. In questo senso aveva ragione lo scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) quando, nel suo romanzoMonsieur Ouine (1946), non esitava a dichiarare: “Si parla sempre del fuoco dell'inferno, mentre l'inferno è freddo”, proprio perché è la mancanza del fuoco benefico dell'amore. Si riesce, così, a comprendere – come spesso si è spiegato – che l'inferno, anche se nella Bibbia e nella tradizione è stato collocato in un luogo, è piuttosto uno stato, una realtà in cui viene a trovarsi la persona peccatrice. Certo, come si è visto, l'Antico Testamento inizialmente vedeva l'oltretomba come un orizzonte indistinto (lo sheol) dove tutti piombavano dopo la morte. Il libro della Sapienza aveva cominciato a ridurlo a sede dei malvagi, facendone così una dimora infernale, mentre i giusti entravano nella comunione divina, nello zenit celeste, rispetto a quell'oscuro nadir di tenebra e di silenzio.
A questo punto possiamo comprendere quanto sia decisiva e necessaria la categoria di “inferno” - espressa attraverso il simbolismo igneo – come componente della vicenda umana nella sua libertà di scelta per il bene o per il male, e quanto lo sia anche per lo stesso concetto di Dio, Signore buono e giusto, pronto a tutelare la morale, a sanzionare il male e a premiare il bene...E proprio perché è sganciato dalla materialità spaziale, l'inferno penetra già ora, attraverso la morte, nella storia personale e universale, così come vi si insedia il paradiso.
Aveva allora ragione – anche se il suo linguaggio non era del tutto teologicamente calibrato e la sua finalità non era strettamente religiosa – Italo Calvino (1923-1985) quando, nel romanzo Le città invisibili (1972), scriveva: “L'inferno dei viventi è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo è facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”.

[Tratto da Gianfranco Ravasi, "Dove sei Signore?" (Edizioni San Paolo)]

 
 

lunedì 16 febbraio 2015

Horror vacui


Horror vacui

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E’ fuori di dubbio che, in Libia come in Danimarca, stiamo raccogliendo quanto abbiamo seminato.
Un tempo si diceva Horror vacui per indicare che, quando esiste un vuoto, c’è qualcosa che lo riempie. La natura aborrisce il vuoto. Ma talvolta ciò che lo riempie non è così piacevole.
Se non ci fosse il vuoto, non fosse stato creato il vuoto tutto sarebbe stato molto diverso. E’ difficile occupare quanto è già pieno.
E’ molto più semplice svuotare. Svuotare di ordine, svuotare di senso, svuotare di Dio.
Un tempo Dio riempiva tutto il cosmo con la Sua presenza, tramite le sue creature. Poi si è deciso che erano le creature ad importare, e non Dio. E un creatore è diventato inutile e imbarazzante, perché stava là a ricordare che una creatura non può tutto: ad esempio, non può farsi da sé.
Le cose imbarazzanti dapprima le si nasconde, perché non siano viste dagli ospiti; poi ci si libera di loro.
Dio occupava uno spazio bello grosso. Grande è il vuoto che si è fatto. I nichilisti dicono che è grande come l’universo stesso e si sa, sono i nichilisti che oggi dominano le nazioni.
Ma un nichilista non ha difese contro chi questo suo vuoto ipotetico, questo suo nulla mentale lo vuole occupare. Può solo continare a ridere ebete, rivendicando la superiorità del niente, sperando che l’ingombro che ha usurpato il suo nulla cessi di esistere.
Sciocco. Niente che esiste cessa di esistere. Né Dio, né ciò che ha preso il suo posto.
Così l’orrore del vuoto si è trasformato in un altro orrore. Dal Dio che ha dato la vita per ciò che è, a ciò che sceglie di non essere, a chi toglie la vita di ciò che è per riempirlo di altro. Qualcuno che non sarebbe mai entrato se non l’avessimo fatto entrare, se non gli avessimo creato spazio, non avessimo creato un vuoto.
Perché l’abbiamo già detto: quando c’è un vuoto qualcosa lo riempie. Noi siamo gli uomini vuoti, ci ricordava un poeta molti anni fa. E ciò che ora viene per noi ci riempie di orrore.
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